La navi dei veleni raccontate da Gangemi
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- 15 mar 2017
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il Tirreno
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L’ottantenne giornalista ripercorre in una lunga intervista le inchieste sui traffici di scorie nucleari
16 febbraio 2016

MARINA DI CARRARA.
Si torna a parlare delle navi dei veleni, partite anche dal nostro porto ed affondate nel Mediterraneo, con carichi di rifiuti tossici o radioattivi che ancora oggi riposano sui fondali. A farlo è “La Lettura”, supplemento settimanale del “Corriere della Sera”, in edicola, che a pagina 43 pubblica un intervista rilasciata a Carlo Vulpio da Francesco Gangemi, giornalista di Reggio Calabria impegnato da sempre in inchieste “scomode”, che gli hanno procurato diversi problemi con la magistratura calabrese.
Gangemi, 81 anni, attuale direttore del periodico “Il Dibattito”, è infatti stato condannato più volte per diffamazione e una volta anche per falsa testimonianza, essendosi rifiutato di rivelare al giudice le sue fonti fiduciarie. Di recente Gangemi è stato arrestato due volte, nel 2013 e nel 2015, nonostante l’età avanzata ed un’invalidità al cento per cento, causata da un cancro.
Attualmente si trova ai servizi sociali. Un giornalista scomodo, dunque, che nell’intervista a Vulpio descrive un’organizzazione criminale ramificata e potente, attivissima tra gli anni ’80 e ’90, in cui erano coinvolti l’Italia ed altri Stati Europei ed africani, la ‘ndrangheta e radicata tra i porti di Carrara, La Spezia e Livorno, triangolo strategico da cui partivano le navi dei veleni. Traffici illeciti costati la vita a chi indagava con coraggio per arrivare alla verità, come i giornalisti del Tg3 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ed il capitano di corvetta Natale De Grazia. Secondo Greenpeace e Legambiente, tra il 1986 e il 1988, furono almeno 9 le navi dei veleni partite da Marina di Carrara e dirette nei paesi del Terzo Mondo.
La prima fu l’italiana Mikigan, che lasciò Carrara per inabissarsi davanti alle coste calabresi il 31 ottobre del 1986.
Nel febbraio 1987 salpò la Lynx, che trasportava oltre 2mila tonnellate di rifiuti industriali. Il 17 aprile di quell’anno partì la Akbay-1, che ne caricava più di 800 tonnellate. A giugno fu il turno della Radhost, con oltre 2.400 tonnellate. Il 9 settembre toccò poi alla Rigel, di proprietà dell’armatore greco Georgios Papanicolau, prendere il largo dallo scalo marinello, insieme al suo carico di 3mila tonnellate, per affondare 12 giorni dopo, in modo estremamente sospetto, a Capo Spartivento, 20 miglia a sud di Reggio Calabria, seguendo la stessa sorte della Mikigan. L’elenco prosegue con la Baruluch, la Danix, la Line e la Juergen Vesta Denise, che trasportavano in totale 43.330 tonnellate di rifiuti tossico-nocivi, provenienti dall’industria chimica. Vulpio parla “dell’inabissamento in mare, doloso e danaroso, di almeno una ventina di navi cariche di scorie radioattive”.
Alcune di queste imbarcazioni erano caricate con granulato di marmo, che, oltre ad occultare i rifiuti tossici in caso di ispezioni, ne avrebbe agevolato l’affondamento. Secondo gli investigatori questo minerale veniva usato dagli affondatori anche per schermare la radioattività.
L’inviato del “Corriere” ricorda anche la tragica vicenda del capitano De Grazia, ufficiale delle capitanerie di porto medaglia d’oro per meriti investigativi, morto avvelenato il 12 dicembre 1995, mentre cercava di ricostruire i movimenti di questa organizzazione criminale. Il militare si era concentrato proprio sulla Rigel, cargo maltese che avrebbe trasportato anche scorie nucleari, il cui intero equipaggio si era dileguato dopo l’affondamento.
Alla partenza da Carrara, però, l’ispezione del carico non fu mai effettuata, grazie alla corruzione del funzionario doganale incaricato. Dopo la morte di De Grazia, Francesco Neri, procuratore di Reggio Calabria
e suo grande amico, ordinò di andare a prendere le carte dell’investigatore, rimaste alla Capitaneria di porto di Marina di Carrara e contenenti i piani di carico di ben 180 imbarcazioni. Ma l’edificio si allagò durante l’alluvione del 1996 e tutti documenti andarono distrutti. (D. C.)
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