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MAMMA CHE MAMMA SANTISSIMA PARTE TERZA.

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  • 23 set 2016
  • Tempo di lettura: 13 min

Da qualche parte mi sembra d’aver letto che don Ciccio Mollace e Macrì avrebbero iniziato l’operazione portata a termine dal dr Giuseppe Lombardo poiché è stato loro impedito. Dicano da chi e perché, altrimenti tacciano! Non conosco l’ultimo nastro nascente pentito Cosimo Virgilio, che non afferma nulla di nuovo. Da anni invisibili sia la loggia massonica deviata meno invisibile l’organizzazione mafiosa detta ‘ndrangheta. E’ chiaro che le logge deviate siano coperte e di quella reggina facciano parte esponenti dell’organizzazione mafiosa tra i quali molti coperti da “omissati”.

Nostra inchiesta giornalistica.

Ed a definitiva conferma dell’esistenza di una struttura di tipo massonico interna alla ndrangheta – si legge nell’ordinanza - sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Cosimo Virgilio, rese nel verbale d’interrogatorio del 29.4.2015 (assunto nel proc. n. 5522/13/21 RGNR DDA). Il collaboratore, infatti, riferiva dell’esistenza di una loggia riservata (anzi: “…coperta…” nelle sue dichiarazioni) composta da plurimi esponenti della locale ndrangheta (tra quelli non coperti da omissis, menziona: Zumbo Giovanni, per partecipazione alla ndrangheta con ruolo di organizzatore, nel procedimento n. 32/93 RGNR DDA, cd. Valanidi; Pietro Labate, pluricondannato per fatti connessi alla sua partecipazione verticistica alla ndrangheta; Diego Rosmini, condannato quale dirigente dell’omonima cosca nel proc. n. 259/06 RGNR DDA; Pellicano Francesco, di recente cautelato nel proc. n. n. 5454/2008 RGNR DDA, cd. operazione Padrino, quale componente della cosca Tegano), fornendo così ulteriori chiarissimi elementi alla ricostruzione della struttura della ndrangheta reggina, operata nella sentenza n. 712/2014, emessa dal Tribunale di Reggio Calabria in composizione collegiale nel proc. n. 7734/2010 RGNR DDA (cd. operazione Meta). E venendo alle conseguenze giuridiche di un siffatto accertamento, va - preliminarmente – osservato come la conclusione probatoria che giustifica l’affermazione di responsabilità penale per la partecipazione alla ndrangheta unitaria, piuttosto che ad una specifica cosca, non sia affatto peregrina, ma rappresenti il coerente e logico sviluppo degli accertamenti giudiziari che le citate indagini cd. Crimine e Meta condotte da questo Ufficio e quella cd. Infinito, condotta dalla Procura della Repubblica DDA di Milano hanno dimostrato, conseguendo plurimi, convergenti ed omogenei provvedimenti giurisdizionali. L’accertata unitarietà della struttura verticistico-organizzativa della ndrangheta, infatti, ha necessari, immediati riflessi anche su quella operativa funzionale; atteso come la prima abbia senso compiuto solo al fine di garantire più efficacemente la seconda. Anche tale conclusione non è semplicemente frutto di sviluppi logici deduttivi dei predetti accertamenti giudiziali, ma trova già prime coerenti applicazioni in autorevoli provvedimenti della Suprema Corte che ne hanno fatto uso per affermare la responsabilità penale e confermare il giudizio di condanna a carico d’imputati “privi” di (rectius: non partecipi ad una) cosca, ma di cui era stato dimostrato il “prendere parte” alla ndrangheta, intesa quale associazione unitaria. Il riferimento è a Cass. I n. 41735/2014 (emessa nel procedimento relativo alla cd. operazione Reale) che, affermando la penale responsabilità di Pelle Giuseppe per la partecipazione alla ndrangheta, contestualmente annullava con rinvio la pronuncia di condanna per i fratelli, emessa dalla locale Corte d’Appello, a cagione dell’insufficiente dimostrazione dell’esistenza di una cosca Pelle. L’argomento probatorio su cui fonda la citata pronuncia riposa sull’accertato attivarsi (il “prender parte” cioè) di Pelle Giuseppe in funzione di mediazione e composizione di plurime vicende relative a diverse cosche di ndrangheta. Astraendo l’insegnamento della Suprema Corte, secondo un percorso, questa volta, induttivo, se ne trae che la dimostrazione della gestione stabile e continuativa di vicende e/o d’interessi della ndrangheta (espressione sintomatica dell’affectio societatis) che superi e/o prescinda dai limiti geo-criminali delle singole cosche, giustifica l’affermazione di penale responsabilità, senza che sia necessario inquadrare il partecipe in questa o quella cosca. Ed è evidente come sia esattamente questo il ruolo svolto all’interno dell’organizzazione da quella che il Tribunale collegiale, nel procedimento cd. Meta, definisce componente chiamata “a relazionarsi con ambienti più elevati di tipo politico ed istituzionale”. E le riferite conclusioni giuridiche sono state fatte proprie anche in seno alla OCC emessa nel proc. n. 7497/2014 RGNR DDA (cd. Gambling), di recente confermata anche dalla Suprema Corte. Si impone, perciò, una rivalutazione degli elementi utili a comprendere le dinamiche di potere della ndrangheta; non quelle note, strettamente collegate al bieco controllo di questa o quella porzione di territorio, ma piuttosto quelle finalizzate alla partecipazione - alla stregua di un soggetto sociale della classe dirigente riconosciuto ed accettato dagli altri e, perciò, pienamente inserito nelle relative dinamiche - ai sistemi di potere che governano le società. Insomma, è necessario completare l’accertamento dai fenomeni d’intimidazione sociale, a quelli d’infiltrazione nei sistemi di potere sociale, secondo quella che è la descrizione tipica della fattispecie incriminatrice di cui alla seconda parte del terzo comma dell’art. 416 bis c.p.. E la mole dei recenti accertamenti sulle più attuali dinamiche della ndrangheta dimostrano come una delle specifiche caratteristiche dell’organizzazione sia quella di affermare il proprio predominio sociale con una (talvolta significativa) attenuazione dei sistemi d’intimidazione, ove necessario sviluppata secondo schemi tipicamente evocativi, allusivi, impliciti (restando ai più recenti accertamenti sul punto, si rammentano gli esiti confluiti nelle OCC emesse nei proc. n. 1338/2014 RGNR DDA, cd. Sistema Reggio; n. 9882-15 RGNR DDA, cd. Principe; n. 9853/2015 RGNR DDA, a carico di Labate Pietro). Mentre, la sua capacità di accumulazione di patrimoni economici e finanziari ed il paziente coltivare relazioni sociali sempre più qualificanti, l’ha, progressivamente, fatta identificare quale sistema di potere sociale dominante da cui dipendono le sorti e le fortune dei consociati (sul punto, paradigmatica è la vicenda oggetto delle indagine accertate nella citata OCC n. 1338/2014 RGNR DDA, cd. Sistema Reggio). Non che la violenza e la minaccia esplicita siano state dismesse dallo strumentario associativo. Ma restano relegate ai sodali più periferici dell’associazione, quelli più esposti all’azione di contrasto giudiziario; soggetti ammaliati dal fascino del potere criminale, illusi da guadagni modesti (ma “facili”), persuasi di avere una qualche rilevanza all’interno dell’associazione, grazie anche a riti, rituali e codici che cementano il vincolo solidale, mascherando le reali linee di potere che governano il gruppo (emblematiche, sul punto, le spudorate vicende estorsive, accertate nella OCC emessa nel proc. n. 8316/2015 RGNR DDA, a carico di Musarella Sebastiano, uomo di fiducia di Giovanni De Stefano, per come emerge nelle lettere sequestrate a quest’ultimo, nel corso dell’esecuzione della citata OCC n. 9882-15 RGNR DDA, cd. Principe ed altri; sullo specifico punto cfr. l’ordinanza del Tribunale ex art. 309 c.p.p., emessa in quest’ultimo procedimento). Così anche il circuito informativo interno all’associazione è rigorosamente caratterizzato da un sistema di camere stagne che segnano la piramide gerarchica del gruppo in cui la base agisce sul territorio, alimentando l’intimidazione diffusa, mentre il vertice governa e gestisce gli affari della cosca, alimentando qualificate relazioni utili a consolidarne il predominio sociale. In conseguenza, nonostante l’azione di contrasto giudiziario abbia registrato confortanti progressi, nei distretti calabresi come in quelli settentrionali, la ndrangheta non sembra significativamente scalfita. Sono due i pilastri che hanno fondato l’azione investigativa: l’individuazione e cattura dei capi delle cosche; l’individuazione e confisca dei patrimoni accumulati. Ma l’analisi retrospettiva, ci consegna un desolante risultato: poco o nulla è cambiato nelle linee di potere della struttura associativa criminale. Sono, infatti, sempre le stesse cosche a dominare alcuni territori ed a coltivare storiche e consolidate alleanze che ne consentono l’espansione fuori dai confini territoriali tradizionali e verso nuovi profittevoli mercati criminali. Eppure, molto spesso, l’apparente linea di potere di una cosca è resa visibile, anzi è ostentata dalla relazione di familiarità o affinità tra i soggetti che si vi si succedono al comando. Da mezzo secolo o giù di lì, sono ancora le cosche De Stefano, Condello, Tegano, Libri, Serraino (la loro citazione è meramente esemplificativa, perché è inquietante verificare come il giudizio potrebbe agevolmente estendersi all’intero gotha provinciale della ndrangheta reggina e vibonese) a dominare la scena criminale sul territorio locale e su quello nazionale. Le condanne e le conseguenti pene detentive inflitte ai massimi dirigenti delle citate cosche, il sequestro e la confisca d’imprese o d’ingenti patrimoni immobiliari, non sembrano averne scalfito il potere. La superiore constatazione, consente di declinare quelle compiacenti descrizioni della ndrangheta come folkloristica organizzazione su base regionale che si nutre dell’atavica povertà economica e culturale calabrese. Tali considerazioni non colgono l’essenza della struttura di potere della ndrangheta che riposa sulla sua capacità di essere liquida ed infiltrante, piuttosto che rigida (nella struttura e nelle regole) e ciecamente violenta ed arrogante, per come – pure – spesso appare o viene artificiosamente rappresentata. Ma sta proprio in ciò, la sua straordinaria capacità di espansione fuori dai territorio originari. Ed infatti, le sopra citate indagini dimostrano come l’intimidazione “lieve” che caratterizza la strategia espansiva della ndrangheta (diversamente dalla feroce ed arrogante sopraffazione intimidatoria che è stata la modalità operativa preferita dalla mafia siciliana) si sia rivelata specialmente fruttuosa. Quando ha di mira settori di mercato o flussi economici sistemici, la ndrangheta preferisce scendere a patti (di solito squilibrati a suo favore, ma pur sempre frutto di mediazione) con l’interlocutore, piuttosto che annichilirne o frustrarne le esigenze ed ambizioni. Questa scelta - lungimirante, sebbene meno profittevole nell’immediato - gli consente di restare, durevolmente, baricentrica agli altri sistemi di potere che gestiscono ampi settori della pubblica amministrazione e/o dell’economia. Proprio in ciò sembra risiedere la sua straordinaria capacità di resistenza al contrasto investigativo. Quest’ultimo, infatti, si è concentrato sugli uomini, piuttosto che sulle dinamiche che questi generavano, sicchè – talvolta – si ha l’impressione di assistere ad una sorta di recita a soggetto, sulla falsariga dell’intuizione del principe di Salina: tutto deve cambiare, perché tutto resti uguale. E’ evidente, perciò, come colga nel segno il locale Tribunale collegiale, nella citata sentenza n. 712/2014 - emessa, in data 7 maggio 2014, a conclusione del giudizio celebrato con le forme del rito ordinario nel procedimento n. 7734/2010 RGNR DDA (cd. operazione Meta) - allorchè individua un gruppo di soggetti funzionali a garantire la stabile e resistente capacità della ndrangheta di perpetuare il proprio predominio sulle dinamiche di potere che caratterizzano le relazioni sociali ed economiche. Si tratta proprio di quei soggetti a cui è riconosciuta un’autorevolezza nella società reggina e nel sodalizio criminale, che consente loro di sviluppare subdole dinamiche di potere grazie alle quali la ndrangheta è uno stabile, riconosciuto e riverito soggetto sociale dominante. La superiore ricognizione dello scenario in cui si sono sviluppate le dinamiche investigate nel presente procedimento, non sarebbe ancora sufficiente ad introdurle se non si confrontasse ulteriormente con il tema della qualificazione giuridica di siffatte condotte che anche nella sintassi giurisprudenziale sono quelle tipicamente riferibili alla cd. borghesia mafiosa. E’ utile, in proposito, richiamare il dotto insegnamento che si legge nella motivazione di Cass. II n. 34147/2015 (si tratta della pronuncia che ha definito anche la porzione del procedimento cd. Infinito, costola milanese di quello noto come procedimento Crimine, istruito da questo Ufficio). Ed infatti, quel provvedimento, dopo avere richiamato gli insegnamenti della Suprema Corte in tema di concorso esterno nei reati associativi, affronta la qualificazione giuridica delle condotte che si pongono al confine tra tale fattispecie e quella di diretta partecipazione all’associazione mafiosa, delineandone con chiarezza i confini. La sentenza, poi, merita di essere apprezzata per la piena consapevolezza del chiaro rapporto di strumentalizzazione tra la componente associativa che gestisce l’intimidazione e quella che, stabilmente, si adopera al fine di consentire “… al sodalizio mafioso di "dilagare" nel campo della società civile…” e così “…incrementare ulteriormente le proprie potenzialità operative…”, secondo le linee normative ben descritte dal terzo comma dall’art. 416 bis c.p. (seppure la stessa Corte evidenzi come l’attenzione giurisprudenziale sia stata spesso attratta dalla parte più truculenta e feroce dell’associazione, trascurando quella dedita all’infiltrazione sociale). Si riporta il passaggio della motivazione di Cass. II n. 34147/2015 a cui si è fatto riferimento (le sottolineature sono dello scrivente):

Segretario di Sarra Alberto il pentito di comodo

Non capisco in quale società civile penetri la ‘ndrangheta. Forse all’università Mediterranea e in altre? Forse nella Regione dove molti consiglieri sono eletti proprio dagli invisibili che sono invece visibilissimi? Mi chiedo: quanti consiglieri regionali siedono sullo scranno con l’appoggio della criminalità organizzata? Forse in quella società incivile che dirige tutti gli enti sub regionali? O quella società civile che si arrampica come può negli enti pubblici e nelle articolazioni minori dello Stato e in quelle centrali? Di chi è la colpa se oggi la ‘ndrangheta s’è infiltrata nella società civile forse quella di Reggio Bene che si pasce di cocaina? O di qualche procuratore che per venticinque anni la sera giocava a canasta e lo facevano vincere? O di Pignatone che s’è rifiutato di firmare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Scopelliti e la sua confraternita, proposta proprio da Lei, stimato dr Lombardo? Forse la figlia del procuratore generale di lungo e prolungato corso che è ricercatrice grazie ai signori Rettori che si sono succeduti fino ad oggi e ora tende alla docenza? O forse i collegamenti visibilissimi tra i vari club e la massoneria deviata? Insomma, di chi è la colpa dello sfascio sociale e morale di questa città fantasma? Come mai novantasette giovani hanno abbandonato questa città senza identità per trasferirsi nei paesi dell’Est? Forse l’imprenditoria è stata rasa al suolo? O forse ha da lavorare solamente il Cuzzocrea, presidente dell’associazione industriale e i Siclari?O forse di qualche questore donnaiolo che in qualche modo agevolava alcune latitanze? Ad esempio. Ogni notte si riunivano al centro di Parco Caserta, realizzato con i fondi del famigerato decreto Reggio, il latitante Giorgio De Stefano che alloggiava in un appartamento nel complesso edilizio Parco Caserta peraltro munito all’uscita da una telecamera, Giovanni Zumbo, il vecchio gestore e altri galantuomini al solo scopo di divorare soppressate, birra e vino? Forse il questore Speranza non lo sapeva? O quali magistrati della DDA fornivano valida copertura? Che cosa ha trovato nell’appartamento di De De Stefano la Polizia? Finanche attrezzi per la ginnastica? A proposito di Zumbo, leggasi l’interrogatorio i cui artefici furono Pignatone e Colamonaci e facilmente si rileva come la mamma santa o santissima si nutriva e forse continua ad addomesticare pezzi dello Stato senza che l’allora caput mundi assumesse provvedimenti adeguati e seri nei loro confronti? Quando scrissi che l’autovettura carica di esplosivi parcheggiata nei pressi del moribondo aeroporto dello Stretto nulla aveva a che vedere con il veterocomunista ex capo dello Stato, Napolitano, oggi senatore a vita proiettato per il sì nel referendum che fra pochi mesi dovrà chiamare alle urne quel che rimane del popolo italico, i gironalai mi hanno criticato. Più grave l’episodio delle saponette gestite e quindi provenienti dal boss in contrasto con la cosca Paviglianiti, depositate dai servizi segreti, tale Laganà, nel cesso sporco di Palazzo San Giorgio Extra, che non avrebbero potuto mai esplodere poiché incellophanate e orfani di esplosivo. Speranza ne era forse a conoscenza? Lui è’ stato il primo ad arrivare sul posto e in assenza degli artificieri l’eroico questore s’è piegato sulle ginocchia per esaminare la porcata che fece di Scopelliti l’eroe nazionale tanto da richiamare a Reggio quel coglione di Berlusconi, preceduto dal voltagabbana agrigentino e dall’attuale presidente della regione Lombardia. Vergogna! La mamma di tutte le mamme è cosa della magistratura che fu e di qualche PM che avrebbe necessità di una visita psichiatrica, dell’attuale classe politica a tutti i livelli istituzionali, nessuno escluso. Dr Lombardo, stia attenta e guardi sempre dietro l’angolo. E ancora. Quali sono gli ambienti più elevati politico/istituzionali. Forse l’arresto del solo suonatore in Grilletta, Caridi? Oppure quelli da me sopra appena accennati? Il problema che ad essere arrestato, sono sempre e comunque io perché scomodo soprattutto alla magistratura e ora affidato ai cosiddetti servizi sociali. Leggiamo assieme cosa scrive il giornalista del Corriere della sera: L’arresto di Francesco Gangemi, giornalista 79enne e ammalato, è l’ultima porcata di leggi e di un modo di applicarle da cambiare immediatamente. Anche con i referendum radicali 7 ottobre 2013 Carlo Vulpio Blog 2 commenti L’arresto di Francesco Gangemi, 79 (settantanove) anni, direttore del mensile “Il Dibattito” di Reggio Calabria, per il solito reato di diffamazione a mezzo stampa (non importa se “ripetuto” per due, cinque, cento volte) è l’ennesima porcata prodotta da un sistema normativo dal quale i giudici traggono novantanove volte su cento motivo per comminare condanne nei confronti dei giornalisti (specialmente quando i querelanti sono magistrati come loro e quindi a giudicare non è un terzo, ma un altro magistrato, cioè un “collega”). I giudici condannano, e quasi sempre a pene detentive, anche quando il querelato è incensurato e magari lo si potrebbe “sfregiare” soltanto con una multa, che è sempre una sanzione penale, ma insomma non è la galera. No, loro, i giudici, fingendo di rimettersi a ciò che stabilisce la legge, quando possono pestano a sangue i giornalisti (e gli editori) e assieme al carcere (anziché la multa) comminano anche la sanzione civile del risarcimento danni, che ovviamente, soprattutto quando il querelante è un altro magistrato come loro (parlano le statistiche, non lo dico io), è sempre un risarcimento pingue e veloce. . Il cosiddetto grande pubblico, infatti, non sa che se un cittadino qualunque si sente diffamato e sporge querela, e poi vince la causa, vedrà i soldi del risarcimento soltanto dopo che la sentenza è diventata definitiva. Mentre se a sentirsi diffamato è un magistrato, e se questi vince la causa, i quattrini gli devono essere sborsati subito, già dopo la sentenza di primo grado (e la eventuale restituzione del bottino avverrà solo se nei gradi successivi di giudizio la sentenza dovesse essere ribaltata. Non ci si sgolerà mai abbastanza se si ripeterà fino alla noia ciò che da anni su questo tema sostengono l’Unione europea e la Corte europea di Strasburgo, e cioè che l’Italia da tempo ormai non è più la culla, ma è la tomba del diritto (altro che “lo Stato di diritto in Italia funziona”, caro Enrichetto Letta). E tuttavia, a ogni condanna e a ogni arresto di giornalista, e a ogni corrispondente abuso perpetrato da pm e giudici sempre puntuali nel “salvataggio” dei propri amici – cioè di quelli che garantiscono al partito dei magistrati lo status quo, che non vogliono alcuna riforma, né del Csm, né dell’ordinamento giudiziario, né per la separazione delle carriere (a “unirle”, fu una legge fascista!), né niente di niente e che storcono il naso di fronte ai ferendum radicali e purtuttavia ogni mattina fanno i gargarismi con le parole “giustizia”, “legalità”, “diritto”, e poi vanno a vendersele con i relativi esercizi palabratici agli idioti e ai finti tonti -, ebbene, a ogni condanna e ogni arresto di giornalista, tutti, in Parlamento, sembrano sbracciarsi e voler correre ai ripari: cambiamo la legge, sì, subito, come no, anzi ce n’è già una pronta da tempo e sulla quale saremmo tutti d’accordo. Poi passa la buriana, si spengono i riflettori e Francesco Gangemi, che tra l’altro è anche seriamente malato, oltre che anziano, può star lì per anni, a marcire in galera e a macerarsi con i suoi problemi. Mentre destra, sinistra e centro, più la disgraziata pattuglia di burattini casaleggiani catapultata a Montecitorio e a Palazzo Madama passa a occuparsi d’altro, eccitandosi (all’onanismo non c’è mai limite) per la decadenza d Berlusconi, e magari confidando, stupidamente, che mettano le manette anche a qualche altro giornalista, perché no, visto che son tutti “servi del potere” (e loro di chi sono servi, anzi, come direbbe uno dei protagonisti del film “Il Buono, il brutto e il cattivo” di chi sono figli?) Questa della depenalizzazione del reato di diffamazione a mezzo stampa è una cosa seria. Molto più seria di ciò che comunemente si pensi. E non è una esagerazione sostenere che se non viene affrontata bene e subito, a farne le spese non sarà soltanto, come pure giustamente si dice, la nostra democrazia – o ciò che ne resta -, ma sarà ognuno di noi, individualmente, uno per uno. Di pari passo, affinché questo rischio venga scongiurato, è necessario: a) rivedere l’intero “castello” e la relativa disciplina della diffamazione; b) sottrarre alla competenza dei magistrati il giudizio in questa materia quando “parte” del processo (querelante o querelato) sia un altro magistrato; c) ficcarsi bene in testa che se non passano alcune riforme del sistema giustizia (insisto: i referendum proposti dai Radicali), “il partito dei magistrati” – che è un potere forte o, se preferite, una lobby che al suo interno si comporta con la logica dei clan – esalterà all’ennesima potenza se stesso e si farà sempre meno scrupoli nel mostrare con chiunque il proprio volto feroce, esattamente nel modo in cui ne disse il grande Piero Calamandrei: “I magistrati sono come i maiali. Se ne tocchi uno, tutti gli altri gridano”. E questo non è bello. Né utile. Né giusto. Forza Gangemi. Resisti. Se non ai porci che gridano, almeno alla porcata. Informazioni su questi ad

Vedi sotto dichiarazioni ZUMBO. Parte terza. Francesco Gangemi




 
 
 

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