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'Ndrangheta 6

  • Francesco Gangemi
  • 1 set 2016
  • Tempo di lettura: 15 min

Prima d’entrare nelle viscere sporche dell’associazione delinquenziale denominata ‘ndrangheta, ho compreso l’importanza d'intendere l’etimologia della parola. E’ difficile o addirittura impossibile almeno per me che non ha trascurato alcun aspetto per arrivare a penetrare etimologicamente nel significato della parola ‘ndrangheta. Comunque, ho provato, senza risparmiarmi, a consultare libri ed enciclopedie pur di pervenire a qualche attendibile risultato. Il vocabolario edito dalla “Treccani”, azzarda l’ipotesi che la denominazione possa derivare dal ‘nndrànghiu, vale a dire uomo valente che risale al greco àvopàyavos (i tasti non mi aiutano), cioè valore individuale, capacità personale. La voce gergale calabrese la indica quale “onorata società” della Calabria, analoga alla mafia siciliana e alla camorra napoletana. Secondo il Cesareo, dall’arabo mahias, spaccone. Nella relazione d’inchiesta parlamentare sulle condizioni della Sicilia del 1875, il Contadini si esprimeva: “La mafia non è UNA PRECISA SOCIETA’ SEGRETA, ma lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta a ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva, brutale, interessata, che unisca a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi non già del lavoro, ma dall’inganno e dall’intimidazione”. Il Facchetti, nel suo studio sulle condizioni politiche della Sicilia estensibili alle Calabre: “La mafia è un’unione di persone di ogni grado, di ogni professione, di ogni specie, che senza avare nessun legame apparente, continui e regolare, si trovano sempre riuniti per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualsiasi considerazione di legge, di, di giustizia e di ordine pubblico; è un sentimento medievale di chi crede di poter provvedere alla tutela e all’incolumità della persona e dei suoi averi mercé il suo valore e la su influenza, indipendentemente dall’azione dell'autorità e delle leggi”. Sentimento che si accentua nella cosiddetta omertà – se secondo alcuni da uomo - per cui si ritiene come primo dovere di un uomo quello farsi giustizia con le proprie mani dei torti ricevuti ed è notato d’infamia e additato alla pubblica esecrazione e alla vendetta, chiunque ricorra alla giustizia per un torto ricevuto e ne aiuti le ricerche e l’azione.


Di seguito riporto all’origine del termine di ‘ndrangheta di Enzo Cicone.

Per definire meglio questa nuova associazione — per quanto possa apparire strano e bizzarro o perfino stravagante — ancor prima di entrare nella cruda realtà dei fatti e nelle drammatiche vicende quotidiane, conviene addentrarsi nel mondo magico delle leggende, rammentandone una che, sicuramente, ha avuto un significato e una importanza del tutto particolari. L'inizio, come in tutte le favole, è proprio il classico «c'era una volta».

Ma nel nostro caso dovremo dire «c'erano»; poiché i protagonisti della nostra leggenda sono più di uno. Sono tre cavalieri spagnoli, personaggi mitici e alquanto misteriosi. Di loro non sappiamo molto. Ne conosciamo i nomi: Osso, Mastrosso, Carcagnosso. Vissero, a quanto è dato sapere, in un'epoca imprecisata, probabilmente fra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento.

I nostri cavalieri facevano parte di una nota associazione fondata a Toledo nel 1412, la Garduna, e dalle loro terre, quelle della Catalogna, portarono nel Mezzogiorno d'Italia alcuni metodi in uso in quella consorteria. Si racconta che lavorarono per 29 anni, sotto terra, di nascosto da tutti, per approntare le regole sociali della nuova associazione che avevano in animo di costituire. La sede da loro prescelta fu l'isola della Favignana. Da lì, dopo un lavoro trentennale, decisero di dividere in tre tronconi l'associazione che, da quel

momento, si insediò stabilmente nelle regioni meridionali, e si denominò mafia in Sicilia, camorra nel Napoletano e 'ndrangheta in Calabria. E’ una antica leggenda, di cui non esistono molte tracce scritte, che si è tramandata

oralmente perché, come vuole la tradizione, «il racconto popolare è fatto non per essere letto, ma per essere detto». Deve essere raccontato a voce, con le parole e con i gesti, perché chi ascolta comprenda pienamente il significato delle cose narrate. Non tutti possono udirlo, non a tutti è dato conoscerlo. Né tantomeno si possono divulgare apertamente o lasciare tracce scritte circa gli statuti, i codici, i riti, le formule di iniziazione, i gerghi. A Reggio Calabria — annotarono i giudici della Corte di appello in una sentenza del 1897 — «non manca lo statuto, ma ai soci non si consegna alcuna

carta scritta, apprendono a voce le discipline sociali».

Se tutto ciò fosse scritto, allora potrebbe capitare nelle mani di chiunque, anche di chi non è degno di sapere. Detto, raccontato a voce, oralmente: perché così chi racconta sceglie l'interlocutore, sa a chi parlare, a chi raccontare i fatti, a chi trasmettere il messaggio. E la voce, accompagnata dalla gestualità e a volte dalla complicità dei luoghi, determina il ritmo, le suggestioni, l'incanto. E’ una leggenda la cui storia si trasmette da lungo tempo e le cui tracce si ritrovano sino in epoca recente, segno indubbio della vitalità, della sopravvivenza nel tempo, lungo i secoli di un racconto nato chissà quando. Frutto della fantasia, senza dubbio, probabilmente

nato in epoca spagnola. Eppure servì a creare un mito, a nobilitare le ascendenze, a costituire una sorta di albero genealogico con tanto di antenati, a far risalire nella notte di secoli lontani la nascita — nobile per di più! — e l'esistenza stessa del vincolo associativo che in questo modo trovava una propria legittimazione. Si può partire da qui, da questa antica leggenda, semplice ed elementare, per indagare l'immaginario e le strutture mentali che compongono l'universo 'ndranghetista entro il quale, per lungo tempo, hanno agito rituali, formule, giuramenti, gerghi e linguaggi particolari; per ricercare le vie e i percorsi attraverso i quali la 'ndrangheta costruì un proprio codice di comportamento e proprie leggi, una cultura e una visione del mondo; per tentare di analizzare quello che viene comunemente definito come comportamento mafioso, alimentato da una determinata mentalità maliosa di cui occorre cogliere origini e radici.

Quando nel 1862-63 fu portata sulle scene la rappresentazione del dramma di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la Vicaria, nessuno poteva certo immaginare che il termine mafia potesse divenire così popolare ed avere una immediata e rapida diffusione. Da allora la parola mafia si è imposta nella storia del crimine organizzato non soltanto italiano, ma anche internazionale, dilatandosi al punto tale da comprendere con essa realtà e situazioni fra loro molto diverse, non soltanto sul piano comportamentale, ma anche sul piano territoriale e geografico. Il termine mafia si impose rapidamente, anche su quello di camorra che, fino all'unità d'Italia, aveva designato le associazioni a delinquere operanti nei territori sottoposti al dominio borbonico. Proprio quando i «mafiusi» di Rizzotto calcavano le scene dei teatri siciliani, veniva pubblicato un libro di Marc Monnier: La Camorra. Così, all'indomani dell'unità d'Italia, andavano precisandosi i nomi con i quali si sarebbero definite in seguito le organizzazioni criminali e le associazioni a delinquere operanti in due regioni italiane: mafia per la Sicilia, camorra per Napoli e la Campania.

E per la Calabria? Per questa regione il discorso è più complesso. Nessuna opera teatrale, nessun saggio storico, nessun libro si occupò in modo specifico delle associazioni a delinquere operanti in quei territori. Per tutto l'Ottocento la situazione rimarrà immutata, e sarà possibile trovare tracce labili, cenni sporadici, riferimenti più o meno generici, tentativi parziali di definire il fenomeno o di descriverlo solo in pubblicazioni di varia natura che non hanno come oggetto specifico la delinquenza organizzata. Non fu certo semplice o agevole trovare un termine che denominasse e definisse le nuove

associazioni criminali operanti in Calabria. Per lungo tempo, anzi, si continuarono ad adoperare i termini di mafia o maffìa e, soprattutto, di camorra. Apprendiamo che Rocco Borgese, di Polistena, fu ammonito nel 1888 dal pretore di quella cittadina «a non dar luogo ad ulteriori sospetti in fatto di ferimenti, camorra e di far parte di maffìosi». Un anno prima la sezione di accusa della Corte di appello delle Calabrie si era occupata di Francesco Giovinazzo, «bracciale» di Gerace, descritto come uomo che «menava vita di bravo e di maffìoso». Nel 1890, da un processo in cui si esaminava un appello prodotto da 66 imputati, tutti provenienti da numerosi

comuni del circondario di Palmi, scopriamo che l'associazione era definita «setta dei camorristi». E qualche anno più tardi la Corte di appello delle Calabrie così scriverà in una sentenza riguardante l'associazione operante a Melicuccà e a Seminara: «Risulta provato da molteplici giudicati come la mala pianta della camorra sia da moltissimi anni arrivata nelle Calabrie». E, con maggiore precisione, annoterà come «malauguratamente abbia fatto profonde radici, massime ne' circondari di Nicastro, Reggio e Palmi per propizio terreno».

Nel 1903 ben 54 imputati, tutti di Gioia Tauro, vennero accusati di essersi aggregati «nelle fila della mafia». L'anno successivo, in un altro processo, un imputato fu accusato di far parte della «maffìa di S. Stefano».

Anche Alfredo Niceforo, sul finire dell'Ottocento, usava la definizione di «camorra reggina», quasi a sottintendere che questa fosse solo una parte di quella napoletana e aggiungeva che lì «paranza è la società o mala vita».

Non c'è sentenza nella quale non si parli di camorra. Come si spiega l'enorme diffusione che questo termine ebbe in Calabria? Probabilmente la spiegazione va ricercata nel particolare tipo di attività che la parola camorra indicava e sottintendeva. «La camorra - affermava Monnier - può essere definita l'estorsione organizzata». Siamo nel 1862, l'anno della pubblicazione del saggio di Monnier. Ma questa caratteristica originaria non sarà dispersa nel corso del tempo. Al contrario, essa tenderà sempre più a

rafforzarsi. «Camorra - ha scritto di recente Isaia Sales - è innanzitutto un'attività, prima ancora che un'organizzazione delinquenziale. Anzi essa indica precisamente il tipo di attività malavitosa svolta: l'estorsione». La diffusione del termine camorra sembra legata non solo al collegamento con la camorra napoletana, ma soprattutto all'estensione - davvero notevole e che si manifestò sin dal suo sorgere nelle organizzazioni calabresi - dell'estorsione, della tassa, appunto della camorra, come allora si diceva. Nel 1885 il pubblico ministero presso il Tribunale di Reggio Calabria, nel proporre appello contro la decisione della Camera di consiglio che aveva assolto 49 imputati, faceva osservare che «lo scopo della

camorra è quello di estorquere denaro [...]. Il camorrista profittando della pusillanimità di alcuni estorque il danaro a titolo di prezzo della sua protezione». Il termine camorra veniva adoperato per indicare indifferentemente sia il fenomeno estorsivo, sia la struttura organizzata in quanto tale. L'imposizione, la richiesta estorsiva che ebbe notevole espansione in Calabria al punto da rappresentare una sorta di elemento costitutivo di quelle associazioni, veniva rivolta con minacce, con intimidazioni

generalmente sempre mantenute - di pesanti ritorsioni in caso di rifiuto. Veniva rivolta nei confronti di chiunque esercitasse una qualsiasi attività economica in grado di produrre guadagno, non importa se in grande o in piccola quantità. E quanto capitò a due fratelli a Reggio Calabria, l'uno «merciaio ambulante», l'altro prestigiatore. Nel 1889, «a costoro si presentò Antonio Leopatri, chiedendo, a nome di Scudieri Giuseppe, del denaro a titolo di camorra e non dandolo sarebbero incorsi in qualche guaio. I due forestieri, intimoriti dalle minacce, promisero pagare se guadagnavano e il giorno nove, nell'atto che Giuseppe Sovinella consegnava al Leopatri la somma di L. 3,80, le guardie di P.S. intervennero arrestando Leopatri e poi Scudieri e sequestrarono il denaro». Non sappiamo in quale modo le guardie di pubblica sicurezza fossero arrivate a conoscere la richiesta estorsiva, se dietro denuncia dei due fratelli oppure a seguito di indagini condotte nei confronti di chi aveva richiesto la camorra. Quello che è importante notare in questo episodio sono gli elementi che lo caratterizzano:

- la richiesta, fatta non in prima persona e direttamente, ma avanzata in nome di un personaggio evidentemente conosciuto e più influente;

- i soggetti che la subiscono: un merciaio ambulanti e un prestigiatore, cioè due professioni non particolarmente lucrose;

- la somma richiesta, che non appare certo eccessiva;

- il «guaio» minacciato in caso di mancato pagamento.

In generale, però, nelle sentenze dei vari tribunali della Corte di appello delle Calabrie, sembra dominare, per un lungo periodo, una grande incertezza nei termini utilizzati per definire le varie associazioni a delinquere. Ciò dipende in parte dal fatto che carabinieri, agenti della pubblica sicurezza e magistrati non sapevano come classificare un'associazione ancora non ben conosciuta, che si andava manifestando proprio in quel periodo e che manteneva caratteri di una certa riservatezza e segretezza. A volte erano gli stessi giudici a non sapersi districare tra le varie definizioni. Non sempre riuscivano ad operare una scelta fra i termini a loro disposizione. A Cosenza i magistrati non trovarono di meglio che parlare genericamente dell'esistenza di una «associazione appellata la Malavita». Eppure avevano sottomano una definizione molto più precisa, quella di «onorata società», che pure riportano in sentenza. Anche a Reggio Calabria si faceva una certa confusione: i magistrati di quella città affermavano che «l'associazione si intitolava i figli del coraggio». A Nicastro, la definizione nel 1888 era «Società nicastrese». L'incertezza appare con più grande evidenza in un'altra sentenza del 1900 nella quale la stessa associazione veniva definita in tre modi diversi. Vengono giudicati 54 imputati di Palmi che risultano «affiliati alla camorra». Dopo questa affermazione, la Corte di appello delle Calabrie annota: «Scidone Santo, già recidivo, sebbene non avesse compiuto il ventesimo anno di età, fu dimostrato che appartenesse alla

picciotteria». E più avanti la nostra fonte prosegue: «Giancotta Salvatore è

recidivo, il delegato Serao afferma che fosse uno dei capi della maffia», per poi concludere: «Esiste in Palmi una pericolosa società di malviventi

denominata, come in tutta la Calabria, picciotteria». Si fa vivo un nuovo termine - picciotteria - che avrà gran fortuna e sarà largamente impiegato nelle sentenze dei tribunali e della Corte di appello. Sempre in quello stesso anno, 1900, in un'altra sentenza della Corte di appello delle Calabrie riferita alla situazione di Sitizzano, frazione del comune di Cosoleto, troviamo che «era sorta e prosperava la picciotteria, con regole proprie». Il termine picciotteria non è usato dai soli magistrati. Lo ritroviamo anche in alcune pubblicazioni dei primi anni del Novecento. Lo usano Taruffi, De Nobili e Lori che nel loro lavoro sull'emigrazione in Calabria, in un capitolo dedicato alla criminalità, definivano picciotteria la malavita che «da qualche anno si è infiltrata in certe contrade, specie nel circondario di Palmi». E Picciotteria è il titolo di un volume di Luigi Ferraioli. Anche Morselli e De Sanctis, nel loro libro sul bandito Musolino, definiscono mafia o picciotteria quelle associazioni che «da qualche anno» vanno sostituendo in Calabria il brigantaggio. Picciotteria è in ogni caso termine che ritroviamo in numerosissime sentenze, per cui non pare abbiano tutti i torti i magistrati della Corte di appello i quali, in una sentenza del 1903, estendevano tale definizione a tutta la Calabria, affermando che le associazioni per delinquere «sono denominate associazioni della picciotteria e quelli che la compongono sono chiamati picciotti».

I termini fin qui usati nelle sentenze e nelle pubblicazioni dei primi del Novecento - camorra, camorristi, maffìa, maffìosi, picciotteria, picciotti – sembrano richiamare la realtà esistente in Sicilia ed in Campania e lasciano intendere forme di collegamento e di parentela con quelle associazioni. Picciotti e camorristi sono i gradi esistenti anche nella mafia e nella camorra e quindi le definizioni che se ne ricavano sembrano adombrare una sorta di filiazione delle organizzazioni calabresi da quelle più importanti operanti da tempo in quelle regioni, in modo particolare dalla camorra. Sembra quasi che le organizzazioni calabresi stentino a trovare una propria

fisionomia, ad affermare una presenza e un ruolo autonomo e originale.

Da cosa nasce questa difficoltà? Dall'essere una organizzazione ancora in fasce? Da una scarsa conoscenza che magistrati e carabinieri, uomini politici e intellettuali avevano circa la diffusione territoriale e la struttura organizzativa? Da una sottovalutazione dei contemporanei? O da una certa pigrizia nell'esaminare un fenomeno che si andava manifestando in modo sempre più complesso, per cui tornava più comodo assimilarlo a quello siciliano o a quello campano? Infine, oltre a queste definizioni, altre se ne danno, quasi a volerci indicare il permanere di un'ulteriore incertezza.

Saverio Strati afferma che in Calabria la famiglia mafiosa «viene chiamata

Famiglia Montalbano». Questo termine - che secondo lo scrittore calabrese

deriverebbe dal nome di Osso, Mastrosso, Carcagnosso, nostre precedenti conoscenze – lo troviamo in alcune sentenze di processi celebrati agli inizi del Novecento. Infatti, quando nel 1914 venne processata la 'ndrina di Cittanova, un testimone raccontò di essere stato invitato a far parte della «famiglia Montalbano» onde «acquistare rispetto e divenire uomo». Incontriamo nuovamente lo stesso termine sul finire degli anni Venti. «La società - affermavano con sicurezza i magistrati della Corte di appello che giudicavano, nel 1928, 39 imputati di Gioiosa Jonica - aveva una denominazione: famiglia Montalbano». Due anni dopo ritroviamo la stessa definizione per una vasta associazione operante in più comuni ai confini della provincia di Reggio Calabria con quella di Catanzaro. Lasciamo parlare la Corte di appello delle Calabrie: «La vasta associazione era denominata Famiglia Montalbano perché diramazione di quella di Gioia Tauro indicata con lo stesso appellativo». Sul finire degli anni Trenta, quando fu processata la 'ndrina operante a Marcinà di Gretteria, un teste affermò di essere stato invitato ad «iscriversi alla società di Montalbano, in Marcine Superiore» con la sicurezza che «avrebbe acquistato rispetto e trovato il modo come vivere bene senza lavorare».

La Famiglia Montalbano è anche il titolo di un romanzo di Saverio Montalto, e tale definizione ricorre in uno dei codici d'onore di Gioia Tauro. La domanda, posta a un «giovanotto» da parte di un altro mafioso in uno dei tanti rituali di riconoscimento fra due affiliati appartenenti ad associazioni diverse, era di questo tenore: «Come avete fatto a trovare la famiglia Montalbano?». Tale definizione non è però molto diffusa. Essa, a quanto sembra, era in uso in alcune località della provincia di Reggio Calabria, soprattutto a Gioia Tauro, e circoscritta nel raggio di azione dei comuni ricadenti sotto l'influenza di quella associazione.

La definizione comunemente e più largamente usata per indicare l'associazione mafìosa calabrese è onorata società. «L'honorable société, délicieux euphémisme» scriveva con una punta di ironia e di malizia Falcionelli. Ma l'ironia, in questo caso, non ci aiuta. Il termine ha la sua importanza, e non è certo usato a caso. «Sarebbe uno sbaglio - è stato osservato - non considerare letteralmente l'appellativo di onorata società: si tratta proprio di una società d'onore». In effetti l'onore è uno dei pilastri che regge la struttura culturale e il modo di pensare di una società contadina quale quella che è possibile osservare in Calabria all'indomani dell'unità d'Italia. Non occorre insistere molto su tale argomento. È nota l'importanza che la cultura folklorica assegna all'onore e al senso dell'onore nella gerarchia dei valori della mentalità contadina. Quello che importa rilevare - ai fìni del nostro discorso - è che uno dei requisiti fondamentali per l'appartenenza all'onorata società è proprio quello di essere un uomo onorato e di essere in grado, alla bisogna, di difendere il proprio onore. Per questo non tutti possono far parte dell'onorata società, non a tutti è dato di partecipare ad una associazione che, sotto questo aspetto, appare come una società d'elite che sceglie e seleziona i suoi membri.

Il concetto di onore è strettamente connesso a quello di possesso e di dominio. Nel picciotto esso «è innanzitutto riposto nella inalienabilità dei beni che egli è riuscito a procurarsi o che gli derivano da fonti naturali. Al primo posto è la donna: moglie, figlia, sorella, madre, amante. Su di loro esso ha un diritto esclusivo, di vita e di morte». Emerge un concetto, esasperato ed estremo, di dominio sulla donna, considerata, per diritto naturale, esclusiva proprietà privata dell'uomo. In una società contadina, nella quale l'uomo nasceva - in profondissima miseria e abiezione - senza diritti e senza proprietà, l'unico diritto che poteva esercitare e l'unica proprietà che

poteva rivendicare erano quelli ricadenti sulle proprie donne. L'onorata società assume questa concezione e la mette a fondamento del suo comportamento e dei suoi giudizi. Non si può diventare picciotto se non si rispettano questi principi e certamente un picciotto non può diventare camorrista se trasgredisce queste regole. Capitò a Cosenza che un picciotto dovesse diventare camorrista e «tuttavia non lo fu perché tollerava che la moglie avesse un ganzo». Errore imperdonabile per chi apparteneva all'onorata società. Così come imperdonabile era ritenuta l'insidia che si portava alle donne degli affiliati che si trovavano in carcere. Una trasgressione di tal genere veniva punita in modo esemplare. Toccò subirne le conseguenze a Pasquale Favasuli di S. Luca. La società lo condannò a morte poiché aveva una relazione con la moglie di un associato con-dannato a 30 anni di carcere. Fra tutte le definizioni, onorata società, è quella meno usata nelle sentenze. La troviamo in quella appena citata dove sta scritto che l'associazione «si chiamava onorata società», in quella riguardante la città di Cosenza e nel corso del processo alla 'ndrina di Cittanova del 1914. Infine, un'apparizione fugace quando si processeranno le 'ndrine operanti a Gretteria e a Siderno. Un teste dichiarò «di essersi anch'egli iscritto alla onorata società». Anche Giuseppe Loschiavo definiva onorata società quella «delinquenza organizzata a forma societaria propria della Calabria», che riteneva «circoscritta» alla sola provincia reggina. Strano destino quello toccato alla definizione onorata società: diffusa a livello delle masse contadine che ben conoscevano l'esistenza e l'appellativo dell'organizzazione, fa fatica ad affermarsi negli atti ufficiali e nelle sentenze giudiziarie. Oggi si ricorre comunemente al termine 'ndrangheta per definire l'associazione mafìosa calabrese. 'Ndrangheta è vocabolo di uso corrente, entrato a far parte del linguaggio comune per l'uso frequente che se ne è fatto. Si può dire, secondo Franco Martelli, che esso abbia un'origine giornalistica. La parola 'ndrangheta è stata adoperata, soprattutto nell'ultimo ventennio, per distinguere le associazioni criminali

operanti in Calabria da quelle analoghe della Sicilia e della Campania.

Forse sarebbe più corretto, dal punto di vista etimologico, dire 'ndranghita che è termine di chiara origine grecanica, derivato da andragathos che indicava proprio l'uomo coraggioso e valoroso. «Quando, in epoca difficilmente precisabile – scrive Paolo Martino - prese forma in Calabria; l'organizzazione mafiosa, caratterizzandosi come onorata società è naturale che vi potesse accedere (come peraltro confermano i codici d'onore) solo chi fosse qualificabile come vero 'uomo', cioè, con una parola grecanica, 'andragathos', nella forma fonetica innovata, ndranghitu». II termine 'ndranghita avrebbe avuto originariamente una connotazione positiva lasciando «trasparire un inconfessato sentimento di rispetto, se non addirittura un esplicito senso di ammirazione, nei riguardi dell'onorata società e dell'uomo d'onore». Solo successivamente il termine avrebbe subito quello che lo stesso Martino definisce «un processo di criminalizzazione» che ha determinato «l'insorgere di connotazioni peggiorative». Secondo Saverio Di Bella, invece, il termine 'ndrangheta non avrebbe «nessuna origine nobile: indica uno dei versi che, in alcune aree della Calabria, accompagnava insieme al battere delle mani, alcune figure della tarantella e cioè: e 'ndrangheta e 'udrà. Gli 'ndranghetisti sono cioè individuati come uomini ballerini, senza sostanza, quasi buffoni, rispetto ai vecchi uomini d'onore che si sentono offesi dall'essere assimilati agli 'ndranghetisti». 'Ndrangheta è tuttavia termine che farà fatica ad affermarsi e a comparire in documenti scritti. La prima traccia si può far risalire al 1909 e fino a quel momento è soppiantato dalla voce concorrente camorra. Sarà solo con gli ultimi decenni che la parola 'ndrangheta avrà una notevole diffusione nella letteratura specializzata e acquisterà notorietà nei grandi mezzi di comunicazione di massa. Essa si imporrà su tutti i termini fino ad allora usati e designerà la particolare associazione a delinquere di stampo mafioso operante nei territori calabresi. Ma, quasi a voler perpetuare un'incertezza

di termini, in tempi recenti ecco giungere, secondo Pantaleone Sergi, una nuova definizione: la «Santa». «Nella provincia reggina - afferma Luigi Malafarina - al termine mafia viene anteposto spesso quello locale di fìbbia e gli associati vennero chiamati affibbiati». Della stessa opinione è Sharo Gambino. «Fibbia», quindi, denominava l'associazione locale che molto spesso era indicata anche dal termine famiglia seguita dal nome del paese di origine dell'associazione. Tale specificazione era tesa a rendere più evidente la distinzione tra la 'ndrangheta, che stava a indicare l'associazione criminale in senso lato, l'organizzazione in quanto tale, e le associazioni locali. Il vocabolo più spesso usato per indicare le realtà locali è quello di «'ndrina», anch'esso di derivazione grecanica, che significa uomo diritto, che non piega mai la schiena. La «'ndrina» è un'organizzazione autonoma, strutturata gerarchicamente al suo interno. Con tale termine si indica l'organizzazione di un determinato comune. Ma spesso nello stesso comune capita che vi siano più di un'organizzazione e allora, in tal caso, si verifìcheranno le distinzioni in maggiore e minore, dove la prima 'ndrina ha

funzioni di comando e di direzione operativa.

Altri termini usati per indicare le associazioni locali, da tempo oramai entrati nel linguaggio comune, sono quelli di famiglia e di cosca.

Ex parlamentare comunista autore di diversi libri sulle lotte contadine nel mezzogiorno d’Italia. Fonte: Ezio Ciconte – ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi – Laterza, 1992.

“Ndrangheta 6”. Continua.


 
 
 

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