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Mamma che Mamma Santissima (parte II)

  • Francesco Gangemi
  • 22 ago 2016
  • Tempo di lettura: 10 min

PARTE SECONDA. Ed infatti, il fallimento della GDM S.p.A. ed il sequestro delle imprese riferibili al duo Suraci-Crocè hanno rappresentato un momento di grave crisi dell’apparato di penetrazione della ndrangheta nel settore della grande distribuzione alimentare, imponendo la programmazione e la ristrutturazione dei sistemi d’infiltrazione, nonché la necessità di creare nuovi equilibri tra i vari interessi criminali coinvolti. La diffusione territoriale, estesa all’intera area del comune di Reggio Calabria, e la rilevanza economica del settore interessato alla ristrutturazione degli assetti imprenditoriali, hanno, infatti, imposto una gestione della suddetta crisi da parte di soggetti e strutture dell’organizzazione criminale, poste ai vertici assoluti della sua piramide organizzativa, consentendo – ancora una volta come già nel proc. n. 7497/2014/21 RGNR DDA (cd. operazione Gambling) – di apprezzare l’unitarietà della ndrangheta nella sua dinamica operativa.

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(RIGUARDO, IL FALLIMENTO, COMUNQUE DOLOSO NONOSTANTE NON SIA STATO DICHIARATO TALE DALL’ORGANO GIUDIZIARIO COMPETENTE, DELLA GDM PREGO CORTESEMENTE IL DR GIUSEPPE LOMBARDO A LEGGERE LE DISONESTA’ DEL DON CARLO MONTESAZNO NELLA GESATIONE SCELLERATA DELLA SOCIETA’. ORA, LA CONSORTE CHE GESTISCE CIO’ CHE E’ RIMASTO DELL’HOTEL EXECELSIOR – DOVE SPESSO SI RIUNIVANO MOLTI SOGGETTI COINVOLTI NELL'OPERAZIONE CUI TRATTASI PER DISCUTERE D’AFFARI E CHE AFFARI – IL TERRENO DOV E’ STATO COSTRIUITO L’EXCELSIOR FU CONCESSO DALL’AMMANISTRAZIONE COMUNALE DELL’EPOCA PER LA SIMBOLICA SOMMA D’UNA LIRA) ACQUISTA AL MERCATINO ALLA PIAZZA DEL POPOLO LA SPESA DA CUCINARE AI MALCAPITATI AVVENTORI. INVECE LA GESTIONE D’ALTA FIUMARA E’ IN ACUTA FASE DEBITORIA, DOVE QUALCHE GIORNALISTA DAL SANGUE INCERTO E ALTRI CIATRONI TRASCORREVANO LE SERATE COME FOSSERO IN UN BORDELLO. DON CARLO – LEGGERE “IL DIBATTITO”, HA AVUTO IN COCESSIONE DA VARIE E DISCUTIBILISSIME AMMINISTRAZIONI COMUNALI, L’HOTEL MIRAMARE RICEVENDO FIUMI DI DENARO PUBBLICO PER FANTOMATICHE RISTRUTTURAZIONI. FORSE SAREBBE BENE, DR LOMBARDO, CHE I ROS DESSERO UN’OCCHIATA ALLA VILLA A MARE DI DON CARLOS, DOVE NON SOLO IL DISTRUTTORE HA INNALZATO UN MURO DOPO AVER ABBATTUTO QUELLO REALIZZATO DAL COMUNE PER ARGINARE LE ACQUE DEL TORRENTE, ADDIRITTURA S’E’ APPROPRIATO D’UNA FASCIA DI COSTA MARINA PER L’ATTRACCO DI MOTOSCAFI. UN GIORNO RICEVO UNA TELEFONTA DA UN IMPIEGATO DELL’HOTEL, CON LA QUALE MI RAPPRESENTA CHE UNA PERSONA AVREBBE VOLUTO INCONTRARMI. QUELLA UGGIOSA MATTINA ANDAI E CHIESI ALL’ADDETTO ALLA RICEZIONE CHI FOSSE E AVENDO APPRESO SI TRATTASSE DI UN MANAGER DI DON CARLOS, ME NE ANDAI LASCINADO DETTO CHE NON ERO DISPOSTO A FARMI CORROMPERE NE’ DAL CIALTRONE INCARICATO NE’ DA NESSUNO. INSOMMA, UNA SPORCA STORIA INFINITA QUELLA SCRITTA DA DON CARLOS SUI BENI DELLA CITTA’ PERDUTA. PER QUANTO ATTIENE LA DISAMINA SULLE COSCHE REGGINE E SULLE CARICHE, AGGIUNGO CHE NON SEMPRE E’ CORSO BUON SANGUE FRA I TEGANO E I DE STEFANO E SE HANNO AVUTO LA FACOLTA’ D’ORGANIZZARSI LO SI DEVE ALL’ASSENZA DELLA MAAGISTRATURA ALL’EPOCA IN CUI ALLA PROCURA NON C’ERA IL PROCURATORE. ANZI. SI MOROMORA CHE QUALCHE MAGISTRATO FOSSE MOLTO VICINO ALLE COSCHE. MI RIPETO. LE DICHIARAZIONI DEL NANO, DI MOIO, DI VIVIANI E DI FIUME IL QUALE E’ SICURAMENTE A CONOSCENZA DI CHI SIA IN POSSESSO DELL’AGENDA DEL PRESIDE, RAPINATA NELL’EX BANCA CARICAL. SE LA ‘NDRANGHETA E’ PRESENTE IN QUASI TUTTO IL TERRITORIO NAZIONE E IN MOLTE STATI LO SI DEVE AL COSIDDETTO CONFINO. UN ESEMPIO. I PIROMALLI TRASCORSERO ILPERIODO DI CONFINO A VIBO VALENTIA DOVE ADDESTRANO LA COSCA MANCUSO CHE AD OGGI COMANDA SU TUTTO IL TERRITORIO VIBONESE E IN ALTRI AD ESSO COLLEGATI. A RIGUARDO, A GIORNI PUBBLICHERO’ LA PODEROSA INFILTRAZIOINE DEI MANCUSO ALLA QUALE ERA AFFILIATO IL PROCURATORE DELL’EPOCA LAUDONIO, IN TUTTE LE ATTIVITA’ COMMERCIALI. PER QUANTO RIGUARDA LE COSCHE FEDERATE STORICAMENTE, CONDIVIDO ANCHE SE SUGERISCO DI LEGERE LE DIHCIARAZIONI DEL PENTITO COSTA CHE STA RENDENDO DICHIARAZIONI PRESSO IL TRIUNALE DI LOCRI. AL PROSSIMO. GUARDI SEMPRE DIETRO L’ANGOLO, DR LOMBARDO.

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Con riguardo più specificatamente alle cosche DE STEFANO-TEGANO tra di loro federate e storicamente contrapposte allo schieramento condelliano, radicate nel quartiere reggino di Archi, come già osservato, esse sono state impegnate attivamente in tutte le guerre di mafia che hanno inciso ed attraversato la vita della ndrangheta nel centro reggino e risultano tra le più agguerrite nel settore delle estorsioni, del traffico d’armi e nel controllo totalizzante di tutte le attività commerciali ed imprenditoriali. La disamina dei giudicati in atti consente, dunque, di affermare - con la certezza derivante dagli accertamenti giudiziari aventi la forza dell’irrevocabilità - che in Reggio Calabria dalla metà degli anni ’70 (processo DE STEFANO + 59 e sentenze Olimpia), la ndrangheta prendeva corpo, fra l’altro, nelle famiglie dei TEGANO e dei DE STEFANO. Di fatto, sono state individuate delle organizzazioni strutturate gerarchicamente, particolarmente attive ed operative, esercitanti un potere illimitato sul territorio, il tutto anche con l’individuazione dei capi storici e del divenire delle associazioni nel tempo. Emergono, sempre dalle medesime fonti, le attività, gli obiettivi, i mezzi e le consolidate metodiche. Le organizzazioni di ndrangheta in esame si sono perpetuate nel tempo senza soluzione di continuità, mutando soggetti, mezzi e struttura e mantenendo intatti forza e potere criminali. Il gruppo TEGANO – DE STEFANO costituisce un caso paradigmatico del ‘modello mafioso’, divenendo altissimo il livello dei mezzi (imprese e professionisti di supporto) e delle finalità (non solo l’asfittico controllo delle attività economiche e l’accaparramento delle ricchezze del territorio mediante un ruolo imprenditoriale assunto in prima persona, ma anche la canalizzazione della ricchezza in tale territorio). Le principali direttrici di azione dell’associazione in esame sono di tipo militare ed economico insieme, nel senso che il potere cercato e conseguito col metodo dell’intimidazione e della violenza mira ad assicurare la supremazia sugli avversari (v. le sanguinose faide con la creazione di uno schieramento facente capo proprio alle cosche federate DE STEFANO-TEGANO), e il monopolio delle principali fonti di ricchezza che si aprono nel territorio, quali sono, oltre le estorsioni, gli appalti e le iniziative economiche, opprimendo la popolazione residente e riducendola in stato di sudditanza psicologica e di depressione economica. Il sodalizio in esame, per come è risultato con evidenza dalle prove in atti, caratterizzato dalla diarchia in affari del nucleo dei TEGANO e di quello dei DE STEFANO, ha mantenuto nel tempo una sorta di ‘ordine’ nella stessa criminalità, assumendo e mantenendo il controllo di una grossa fetta delle attività estorsive in città. Attività condotte con metodologie sperimentate e consolidate: richieste, successivi danneggiamenti anonimi e una mancanza di palesi sviluppi o di conferme delle persone offese, emergendo però alle forze dell’ordine come in realtà le vittime pagassero e tacessero, in un quadro, quindi, di reati diffusi e di generale omertà. Emerge, quindi, un capillare controllo e potere sul territorio, il terrore e l’omertà della gente, la finalità e anzi il conseguimento di ingiusti profitti da estorsioni e la longa manus sugli appalti e su qualsiasi fonte di ricchezza. Le cosche DE STEFANO - TEGANO sono famiglie mafiose, poi, riconosciute, che hanno rapporti con le altre analoghe famiglie, come emerge dalle sentenze passate in giudicato acquisite agli atti. Tutti i profili di diritto sopra evidenziati sono presenti, dalla paura della gente, tale da non richiedere eclatanti manifestazioni di violenza, alle intimidazioni sistematiche che tale paura hanno coagulato e sedimentato nel tempo sino a raggiungere livelli così elevati da determinare soccombenza e notevole timore il solo nome delle famiglie in questione. Si tratta di una ndrangheta non indebolita dalle pregresse faide, ma, anzi, fortificata dalla pace, dalle alleanze e dall’accordo spartitorio che ne sono seguiti, che si ritiene autorità di fatto e padrona indiscussa del territorio, con tutte le relative conseguenze. E’ ndrangheta che vive anche di un preteso (e malinteso) ‘prestigio’ di capi mitizzati, intatto anche nonostante la detenzione, per come emergente dalla serie di dichiarazioni incrociate di collaboratori che dipingono autorevolezza, alleanze, potere ricattatorio, capacità e possibilità di comunicare determinazioni dal carcere. E sul tema carcere, e delle vicende soggettive e delle associazioni, può farsi una riflessione generale: il carcere non recide ex se il legame associativo e non influisce più di tanto sulle associazioni, che, tendenzialmente, sopravvivono alle vicende dei singoli membri, con gli opportuni ricambi e mettendo in “aspettativa pagata” i soci detenuti. In molti processi, infatti, è emerso dai narrati dei collaboratori come gli stessi, nelle fasi detentive precedenti alla scelta collaborativa, fossero stipendiati dalle organizzazioni di appartenenza ed emerge, dalle intercettazioni, come il carcere fosse un ulteriore luogo di aggregazione dal quale, dopo l’uscita, ci si reimmetteva nel circuito associativo tornando subito attivi. La constatazione in parola è utile per comprendere la forza delle associazioni in parola, che non è costituita solo dai soggetti intercettati o pedinati o in libertà, ma anche dai detenuti, con il loro ‘peso’, con il prestigio che nell’ambiente criminale loro conferisce il carcere e con quell’aspettativa di un pronto rientro in campo, con la scarcerazione, che essi danno, e consentono sia fondata, all’associazione. Il dato è anche significativo per cogliere nel profondo le associazioni e per ribadire e comprendere come le cosche di cui si parla, pur se si presentano a quadri ridotti e con obiettivi non ‘militari’, sono quelle stesse che pochi anni prima hanno fatto stragi di uomini e scempio della vita civile di una comunità cittadina ammutolita ora per terrore, ora per pilatesca indolenza. La diversificazione degli obiettivi, la parziale sommersione dopo gli arresti, la blindatura rispetto alle indagini e alle collaborazioni, sono solo causa di maggiori difficoltà di prova, ma non creano alcuna interruzione nella continua vitalità delle associazioni in esame. E che tutto venga utilizzato, come da buona mentalità imprenditoriale della ndrangheta (peraltro agevolata dalla “capacità” di sbaragliare ogni possibile concorrenza), lo dimostrano proprio le emergenze relative alla pace provinciale tra le cosche: diminuzione degli omicidi, abbassamento della tensione delle forze dell’ordine o comunque dell’attenzione della gente, azzeramento del rischio che taluno si penta per paura di essere ucciso, anzi ai pentiti si fanno ponti d’oro per farli ritornare indietro in famiglia o si tentano strategie di inserimento di falsi pentiti per far saltare questo pesante meccanismo, e ci si può concentrare sugli affari economici, annientando - già con la paura che evocano ed incutono solo i nomi - la concorrenza e facendosi forti delle alleanze nate con la pace. Ora, se le sentenze “OLIMPIA”, ormai definitive, hanno fotografato la realtà criminale cittadina presa in esame sulla base di un corposo materiale probatorio che si arrestava, in buona sostanza, alla metà degli anni ’90 (con le ulteriori conoscenze offerte, fino al 1998, per la zona ionica, dalle intercettazioni del processo “Armonia”), e se le acquisizioni investigative relative all’operazione “Il Crimine” hanno consentito di esaminare nuovamente, alla luce delle indagini degli ultimi anni, l’assetto complessivo dei rapporti tra le cosche ‘ndranghetiste della cosiddetta “provincia di Reggio”, si aggiunge, oggi, a tali ‘antecedenti’ il compendio probatorio di cui al presente processo; compendio in larga parte costituito, dalle risultanze dell’operazione convenzionalmente denominata “META” che ha rivelato la strutturazione di una nuova compagine associativa, all’esito di un complesso iter evolutivo, di carattere unitario e verticistico, composta dai capi delle principali cosche cittadine, con la collocazione in posizione apicale assoluta di DE STEFANO Giuseppe, in qualità di “Crimine”, che ha assunto un controllo accentrato, di tipo imprenditoriale, su tutto il mandamento di centro, che si estende da Pellaro a Villa San Giovanni, in rapporto di coesistenza e pur di sovra ordinazione con le singole consorterie territorialmente competenti, le quali mantengono la loro rispettiva identità e limitata autonomia. In tale prospettiva, qualsivoglia approccio alle articolazioni territoriali della ndrangheta operanti nel capoluogo reggino non può non tenere conto degli accordi intercorsi tra i due schieramenti che si sono militarmente fronteggiati nel corso della sanguinosa seconda guerra di mafia (che ha riguardato in modo pressoché esclusivo la città di Reggio Calabria). Analogamente, alcuna ricostruzione - che voglia ritenersi rispettosa delle statuizioni giurisdizionali aventi autorità di ‘giudicato’ - potrebbe prescindere dalla centralità di alcune figure di altissimo profilo, quali quelle di Pasquale CONDELLO, Giuseppe DE STEFANO, Giovanni TEGANO, Pasquale LIBRI, in primis, il cui ruolo trova ampia dimostrazione nelle propalazioni dei collaboratori IANNO’ e FIUME, nonché più recente conferma nelle dichiarazioni di LO GIUDICE, MOIO e VILLANI (come si vedrà più approfonditamente nel prosieguo della trattazione). Le recenti scelte collaborative, singolarmente considerate ed unitariamente valutate, sono di alto profilo ed ampiamente in grado di fornire aggiornati fotogrammi sulla ndrangheta di Reggio Calabria con specifico riferimento tanto alle cosche di maggior peso criminale che ai rapporti tra i capi delle stesse e le figure poste al vertice dell’apparato esecutivo. Nel descrivere, infatti, i rapporti tra le cosche DE STEFANO e TEGANO, e tra queste e la famiglia CONDELLO, i collaboratori di giustizia MOIO Roberto, LO GIUDICE Antonino e VILLANI Consolato forniscono la migliore chiave di lettura di rapporti ed avvenimenti in grado di chiarire le ragioni dell’attuale assetto della ndrangheta cittadina e delle dinamiche che ne hanno caratterizzato la vita e l’azione quantomeno nell’ultimo decennio. Nel delineare i ruoli dei capi locale DE STEFANO Giuseppe, TEGANO Giovanni e CONDELLO Pasquale, anche in relazione alle altre figure di maggior carisma criminale, i collaboratori di giustizia sono in grado di confermare la struttura verticistica che caratterizza anche le cosche egemoni nel territorio che ricade nella “Provincia di Reggio”, cioé nel mandamento di Centro – con ciò confermando non solo che la ndrangheta ha superato quelle logiche che la ancoravano ad un modello orizzontale – ma soprattutto la integrazione del modello cittadino, orbitante intorno alle quattro grandi famiglie, con la struttura mafiosa nel suo complesso. Ciò rappresenta la definitiva conferma che il percorso evolutivo dell’organizzazione – verso modelli gerarchicamente riconosciuti – non può fare a meno di figure universalmente accettate a cui deve essere riconosciuto il potere di governare spazi territoriali, ben più ampi della singola “locale”, coincidenti con le macroaree a cui si è accennato. Quanto sopra riportato, poi, è del tutto coerente specie laddove si evidenzia che, se da una parte emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori una minor dipendenza delle cosche di una parte del capoluogo dalla ritualità che caratterizza altri territori ad altissima densità mafiosa, dall’altra emerge il legame di fondo, tendenzialmente inscindibile, che caratterizza l’essenza più profonda della ndrangheta quale fenomeno unitario. In sostanza, l’associazione di tipo mafioso ndrangheta cambia pelle, si adegua al tempo ed alle risorse del territorio su cui opera, mantenendo, però, intatte le sue caratteristiche di fondo, specie l’ortodossia di talune regole, rilevanti ben oltre quanto potrebbe suggerire una lettura meramente sociologica del fenomeno o superficiale (e stereotipata) perché ancorata all’idea di una struttura ancora tribale ed arcaica. Ne deriva che può condividersi la conclusione secondo cui la ndrangheta che controlla il territorio della città di Reggio Calabria solo apparentemente è ‘altro’ rispetto a quella che opera nella locride o nel versante tirrenico della provincia reggina: le ragioni storiche delle sue logiche sono note e sono il frutto di processi evolutivi le cui dinamiche possono dirsi ormai accertate a conclusione delle complesse vicende processuali richiamate (le operazioni “OLIMPIA” prime fra tutte, per la loro ampiezza complessiva, ma anche le operazioni “VALANIDI” e “ARMONIA”). Tali differenze, in definitiva, non rendono la ndrangheta che opera nella città di Reggio Calabria ‘altro’ rispetto a quella che controlla gli altri territori, provinciali, nazionali ed esteri, sicché può convenirsi che l’organizzazione criminale è sostanzialmente unitaria, ha proprie ‘regole’, propri rituali, propri capi carismatici, ha vissuto i suoi conflitti, ha adattato le sue strategie, ha plasmato i suoi interessi sulle caratteristiche dei suoi interlocutori, ha individuato le fonti di ricchezza e le ha sfruttate, ha individuato i centri di potere e si è mossa per condizionarli e, se possibile, per includerli a sé stessa o, peggio, per conquistarli. E tanto ha potuto giovandosi della forza derivante dalla concatenazione di uomini, gruppi di potere e strategie”.

…”.

FINE PARTE SECONDA


 
 
 

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